Anatomia dell’osceno – Preludio a uno studio dell’oscenità (nell’arte) contemporanea/1

di Roberto Mottadelli

Omnia munda mundis

Paolo di Tarso

 

Ad altri l’universo appare onesto perché gli onesti hanno gli occhi castrati.

È per questo che temono l’oscenità.

Georges Bataille

 

CiceroneChe cosa è osceno? La questione è in prima istanza filosofica – un groviglio difficilmente districabile di antropologia, morale ed estetica. Ma si traduce anche in un’immediata, ineludibile dimensione sociale e politica.

Già ne era consapevole Cicerone il quale, in un noto passaggio del De Officiis, con romano pragmatismo spostava il baricentro della riflessione dalla speculazione al suo aspetto più “concreto”: «Quodque facere non turpe est, modo occulte, id dicere obscenum est[1]». In sostanza non è osceno ciò che, pur essendo osceno, viene taciuto; ma è osceno solo ciò che viene raccontato. Perché solamente quest’ultimo ha conseguenze sulla vita pubblica. Lo stesso Cicerone, nella dimensione più intima delle Epistulae ad Familiares, aggiunse che l’oscenità si moltiplica se e quando viene raccontata in modo esplicito. E di conseguenza polemizzò apertamente contro il lessico franco degli stoici che, da parte loro, avevano negato l’esistenza stessa dell’osceno tanto nella realtà quanto nella sua rappresentazione: «Sic enim disserunt, nihil esse obscenum, nihil turpe dictu[2]». Una logica in sé stringente, ma ritenuta politicamente insostenibile. Non solo all’epoca dell’Arpinate.

Chiediamoci dunque che cosa sia considerato osceno raccontare, descrivere, mostrare. In che misura il linguaggio e il medium utilizzati per il racconto possano catalizzare e moltiplicare l’oscenità. E riduciamo, almeno per ora, la riflessione ontologica sull’osceno a una modesta annotazione di matrice etimologica.

Un’affascinante interpretazione, ormai considerata errata eppure spesso citata, rimanderebbe a un’origine “teatrale” della parola: osceno significherebbe infatti “fuori scena”. Più probabile che il termine affondi filologicamente le sue radici nel fango e nella sporcizia, o in alternativa che significasse “di cattivo augurio”. Le tre diverse ipotesi non a caso convergono in un unico fuoco: ciò che è di malaugurio non deve essere mostrato o pronunciato, esattamente come ciò che non è in scena non viene raccontato e ciò che è sporco e infangato non dev’essere esposto al pubblico sguardo. L’etimo racconta che l’osceno si infiamma nell’ostentazione e si spegne nel silenzio.

Se ciò è vero, ne discende che la misura e l’intensità dell’osceno dipendono, prima ancora che dall’identità di ciò che è osceno, dal suo livello di palesamento, dalle modalità e dalla durata della sua ostensione. Riconducendo e riducendo la qualità a quantità, si potrebbe chiosare che molto, moltissimo dipende anche dalla vastità del pubblico al quale l’osceno si mostra.

C’è dunque un’enorme differenza tra l’oscenità riservata a un circolo ristretto, fruibile con discrezione, e quella che impudicamente si squaderna alle masse. Per esempio, tra l’oscenità affidata alle pagine di un libro e quella espressa attraverso pubbliche immagini. Non solo perché la letteratura, soprattutto in epoche passate, era destinata a una platea ristrettissima – quella alfabetizzata – che le colonne d’Ercole della lingua delimitavano geograficamente e arginavano culturalmente, mentre l’immagine è in larga misura trasversale a ceti sociali, popoli ed epoche storiche. Ma anche perché l’immagine oscena squarcia il velo della mediazione soggettiva e della ricostruzione fantastica, di quell’infingimento e annacquamento intellettualistico, più o meno ipocrita, cui invece la pagina scritta ammicca con facilità. L’immagine sottende una potenza espressiva la cui oggettività e ineluttabilità può sconfinare, deflagrare nella violenza. Ciò vale a maggior ragione per l’immagine più diretta e autentica, “ri-presa” direttamente dalla realtà: quella fotografica e cinematografica.

erotisme_cinemaDi questa dicotomia offre testimonianza involontaria e imbarazzata un intellettuale raffinato come André Bazin. In En marge de «L’erotisme au cinéma» Bazin scrisse infatti che il cinema «può dire tutto ma non mostrare tutto», affermando in sostanza che l’erotismo, quando supera l’allusione e si fa reale, esce automaticamente dai confini dell’arte[3]. Una reazione simile, di istintivo rifiuto dell’osceno, si poneva in contraddizione con il resto della sua estetica, testimoniata da innumerevoli prese di posizione a favore del “cinema della realtà”. Tanto da indurlo ad ammettere con stupefacente candore che «accordare al romanzo il privilegio di evocare tutto e negare al cinema, che gli è così vicino, il diritto di mostrare tutto è una contraddizione critica che constato senza superarla».

Consonante, ma decisamente più lucida, è la posizione del sociologo Renato Stella. Il quale, cercando di individuare il discrimine tra erotismo e pornografia, osserva che la distinzione classica – erotismo come metafora della seduzione, pornografia come pura denotazione del rapporto sessuale – è stata scardinata dal «primato dell’immagine sul racconto scritto, e dell’immagine videoregistrata rispetto all’immagine fotografica, che si traduce in una oggettiva riduzione d’importanza nella diffusione e penetrazione dell’“erotismo colto” (prevalentemente scritto o rappresentato da stampe e fotografie “d’autore”) rispetto alla pornografia (prevalentemente resa in immagini filmate). A questo passaggio di supporti tecnici è concomitante la nascita di nuovi stili di narrazione soprattutto visivi e meno immaginativi, per cui gli antichi confini tra erotismo e pornografia vengono travolti più dai codici, che dai contenuti imposti dal nuovo mezzo. Ne fa fede il fatto che la “letteratura pornografica”, uscita dall’enfer delle biblioteche pubbliche e private, oggi si trova nelle comuni librerie come “letteratura erotica”[4]».

Mentre si discute del primato dell’immagine sulla parola scritta, quasi inevitabilmente la dissertazione sull’osceno scivola nel cosmo iconico e semantico dell’eros. Che si configura infatti come il primo ambito di oscenità, il primo grumo oscuro di tabù “non pubblicamente narrabili” della nostra cultura. Nostra – ovviamente – nel senso di mediterranea, neolatina (o post-romana?), giudaico-cristiana, europea. Incidentalmente, la nostra è anche la cultura che si è imposta in gran parte del pianeta nelle epoche di Alessandro e Cesare, Colombo e Cortéz, e che ha continuato a dominare l’immaginario globale ai tempi delle multinazionali, del cinema e del football.

Ancora una volta un buon punto di partenza è Cicerone che, nel De Officis, con disarmante onestà dà per assodata l’ipocrisia in merito al sesso già in una Roma precristiana e di fatto gaudente: racconta infatti che malversazioni, furti, corruzione sono indecenze nella sostanza ma non nella forma, ergo descriverle con dovizia e proprietà di linguaggio non è osceno. Al contrario, partorire e nascere sono azioni oneste, ma descriverle pubblicamente senza eufemismi e corposi omissis sarebbe osceno[5]. Alla capacità deduttiva del lettore è affidata ogni considerazione sull’opportunità di alludere all’atto dal quale ogni nascita procede.

Romano«La foglia di fico è stata per lungo tempo uno degli emblemi segreti della critica letteraria e artistica[6]». Lo è stata fin dagli albori, dai tempi cioè in cui il primo storico dell’arte, Giorgio Vasari, prendeva pubblicamente le distanze dai Modi di Giulio Romano: «Fece dopo queste cose Giulio Romano in venti fogli intagliare da Marcantonio [Raimondi] in quanti diversi modi, attitudini e positure giacciono i disonesti uomini con le donne, e che fu peggio, a ciascuno fece messer Pietro Aretino un disonestissimo sonetto; in tanto che io non so qual fosse più brutto, o lo spettacolo dei disegni di Giulio all’occhio, o le parole dell’Aretino agli orecchi[7]».

Ciò, come ovvio, non significa che la produzione di immagini e versi osceni si sia mai davvero fermata. Per secoli però ha avvertito il bisogno di nascondersi, non solo per sfuggire ai rischi reali della censura ma anche per una sorta di autocastrazione, ossia per l’accettazione e addirittura l’introiezione di un confinamento sociale che non aveva neppure bisogno di essere ribadito. La sua sfera d’azione è stata quella del divertissement e della licenziosità. Il sonetto e l’illustrazione eroticamente osceni erano cioè una consapevole, privata licenza che l’autore e il fruitore si prendevano nei confronti della pubblica morale: ben attenti a non varcare il confine dell’“area di tolleranza” più o meno esplicitamente concessa da leggi e precetti. Tra i molti esempi possibili basti quello di Hayez, il maestro dell’Italia risorgimentale, che al grande pubblico e alla grande pittura concedeva un bacio allusivo ai piedi delle scale, mentre privatamente disegnava il kamasutra in compagnia della modella prediletta. Tutto accettabile e nulla di osceno, purché l’eros fosse paludato, solo misuratamente accennato allo sguardo del pubblico[8].

originemondoFin troppo facile ricordare che a rimuovere in tutti i sensi la foglia di fico fu Gustave Courbet, pittore che si considerava non solo «un socialista ma anche un democratico e un repubblicano – in breve un partigiano di qualsiasi rivoluzione e soprattutto un realista […], giacché realista significa amante sincero della verità autentica[9]». Nell’Origine du monde Courbet, riprendendo in qualche modo lo spirito degli stoici e dei cinici vituperati da Cicerone, esibì proprio ciò che il più celebre avvocato della romanità aveva preso a esempio di obscene dicere: il sesso femminile e il mistero della nascita. Lo fece senza ricorrere a quelle contestualizzazioni biblico-mitologiche che, ancora nel secondo Ottocento, potevano valere come salvacondotto intellettualizzante – velo virtuale e apportatore di codine virtù – per la raffigurazione di scene pruriginose.

Oscena fu giudicata l’anatomia femminile, e tale continua a essere considerata a un secolo e mezzo di distanza. È del 2011 la notizia di alcuni utenti del social network Facebook (incluso l’artista danese Frode Steinicke) “bannati” perché avevano scelto questo dipinto come immagine del loro profilo: in un caso ne è scaturita una disputa legale con conseguenze ancora da definire[10]. E ben due opere letterarie[11] che proponevano l’Origine du monde in copertina sono state sequestrate dalle librerie di due Paesi laici – Francia e Portogallo – rispettivamente nel 1994 e nel 2009.

Non solo: a quel primo piano di limpido coraggio Courbet attribuì un titolo rivoluzionario intuendo, ben prima di Marcel Duchamp e dei ready-made, che il nome impresso a un’opera d’arte contribuisce in modo essenziale a definirne l’identità: soprattutto quando la si vuole investire di un valore destabilizzante. Battezzando quell’opera “Origine del mondo”, Courbet le conferiva un significato assoluto. Rovesciava consapevolmente il mito della Genesi e la sacralità di ogni cosmogonia per ricondurre l’enigma dell’esistenza alla materia. Dallo spirito al sesso, dal logos alla carne. Una simile professione di laicismo non poteva che appariva oscena, almeno quanto quel «ventre di donna dal monte di Venere nero e prominente, sullo spiraglio d’una vulva rosa[12]».

L’Origine du monde fu messa a tacere, nascosta o dissimulata dietro anonimi dipinti perfino dai collezionisti più colti, disposti a svelarla soltanto lontano da occhi indiscreti[13]. Insomma, il consueto depotenziamento dell’osceno attraverso il silenzio. Ma la provocazione di quel titolo indica la via lungo la quale estendere la riflessione sull’osceno, e cioè indagando la sovrapposizione tra due generi di tabù: quelli relativi all’eros e quelli relativi al sacro. Una categoria primordiale e trasversale a ogni culto, che in genere si esprime attraverso linguaggi preriflessivi[14].

 


[1] Cicerone, De Officiis, I.126.

[2] Cicerone, Epistulae ad familiares, IX.22

[3] Cfr. M. Giori, Quadri piccanti e spettacoli indecentissimi: la ricezione dell’osceno come attrazione, in Estetica della fruizione, a cura di Maddalena Mazzocut-Mis, Lupetti, 2008.

[4] Renato Stella, L’osceno di massa, Franco Angeli, 1991, p. 166

[5] «Latrocinari fraudare adulterare re turpe est sed dicitur non obscene; liberis dare operam re honestum est nomine obscenum». Cicerone, De Officiis, I.128.

[6] Guido Almansi, L’estetica dell’osceno, Einaudi, 1974, p. 131

[7] Giorgio Vasari, Le Vite, 1550

[8] La relazione extraconiugale tra Hayez e la modella Carolina Zucchi era nota a molti. Ma per evitare polemiche a Hayez bastò autocensurarsi e intitolare L’ammalata un ritratto dell’amante tra le lenzuola, dipinto in realtà dopo un rapporto sessuale. Cfr. Fernando Mazzocca, Hayez privato. Arte e passioni nella Milano romantica, Allemandi, 1997,

[9] G. Courbet, Correspondance de Courbet, Flammarion, 1997, p. 97

[10] Cfr. www.telegraph.co.uk/technology/facebook/8448274/Facebook-account-suspended-over-nude-Courbet-painting-as-profile-picture.html Steinicke, nel frattempo, ha riaperto un profilo optando per un immagine meno controversa: il ritratto di Goethe nella campagna romana di Wilhelm Tischbein.

[11] I libri in questione sono Adorations perpétuelles, di Jacques Henric; e Pornocratie di Catherine Billat

[12] La citazione è annotata nel Diario di Edmond de Goncourt in data 29 giugno 1889

[13] Cfr. Thierry Savatier – Courbet e «L’origine del mondo» – Storia di un quadro scandaloso, Medusa, 2008

[14] Cfr. Mircea Eliade, Il sacro e il profano, Bollati Boringhieri, 2006